Le
notizie che trapelano in queste settimane
dal processo Miteni in corso al Tribunale di Vicenza devono farci
riflettere. Oggi
assistiamo alla ennesima deposizione dei tecnici di ARPAV in qualità
di testimoni proposti dall’accusa, ma noi sappiamo che per alcuni
di loro è stato applicato un metro di giudizio che in altri contesti
e in altri luoghi li avrebbe potuti vedere sui banchi degli imputati,
in particolare per alcuni di loro si può dire che abbiano fatto
parte dina ARPAV numero
due. Una sorta di livello capace di applicare un metodo evoluto
nei decenni di ispezioni
verso
alcuni tra i più influenti portatori di interessi dell’industria
vicentina. Ad avvalorare
questa visione e questo scenario
ci sono le parole dell’attuale
Procuratore
capo di Vicenza, rese sull’operato di chi lo ha preceduto. Si
tratta di parole pesanti come pietre sulla derubricazione delle
ipotesi di reato ascritte ai tecnici ARPAV rilevate nella relazione
della
commissione parlamentare sui reati nello smaltimento dei rifiuti
industriali.
La
relazione della Commissione
Ecomafie
mette in evidenza che i
tecnici di ARPAV non vedono, infatti
«...nel
corso dell’audizione dell’11 luglio 2019, Alessandro Bizzotto,
dirigente del servizio controlli di ARPA Veneto, ha riferito che in
effetti, nell’anno 2005, i tecnici dell’ARPA si erano recati
presso la Miteni per sigillare il contatore di uno o più pozzi di
attingimento dell’acqua di falda per uso industriale e che in tale
contesto non avevano rilevato l’esistenza di una barriera
idraulica, posto che il sistema di depurazione delle acque con i
filtri a carbone, con tutta probabilità, era stato dalla società
allocato in un sito distante dai pozzi di attingimento, che non erano
distinguibili da quelli usati per l’emungimento delle acque
destinate ad uso industriale.