La relazione della Commissione Ecomafie mette in evidenza che i tecnici di ARPAV non vedono, infatti «...nel corso dell’audizione dell’11 luglio 2019, Alessandro Bizzotto, dirigente del servizio controlli di ARPA Veneto, ha riferito che in effetti, nell’anno 2005, i tecnici dell’ARPA si erano recati presso la Miteni per sigillare il contatore di uno o più pozzi di attingimento dell’acqua di falda per uso industriale e che in tale contesto non avevano rilevato l’esistenza di una barriera idraulica, posto che il sistema di depurazione delle acque con i filtri a carbone, con tutta probabilità, era stato dalla società allocato in un sito distante dai pozzi di attingimento, che non erano distinguibili da quelli usati per l’emungimento delle acque destinate ad uso industriale.
È una versione dei fatti appare incontestabilmente strumentale ad una strategia difensiva, come è emerso con la nota del NOE che evidenziava i contatti con l’azienda per ottenere le sostanze in questione allo stato puro, per definire lo standard dei parametri di analisi per gli strumenti dell’ente regionale. Dalla stampa che ha rilevato questi aspetti, è emerso però che la Regione Veneto quegli standard li avesse acquistati. È dunque di difficile comprensione perché vi siano stati scambi per chiedere le sostanze pure all’azienda. Le dichiarazioni del dirigente sulle ragioni dei suoi contatti con i dirigenti di Miteni sotto indagine, per ottenere da loro quegli standard, sono quando meno discutibili. Alla luce delle recenti notizie sono tali da mettere in dubbio le ragioni della derubricazione dei reati ascritti a quella pattuglia di indagati di ARPAV. In sostanza sembra del tutto giustificato avere il dubbio che il profilo psicologico del reato sussistesse, quanto meno dal punto di vista di una condotta negligente. Crediamo anche che tali archiviazioni di cui hanno beneficiato debbano essere valutate da un’altro giudice, magari di Trento.
Per loro ammissione in tribunale, si confrontano con aziende reticenti e che sovente si nascondono dietro a segreti industriali, che usano per impedire di conoscere cosa finisce nell’ambiente e cosa potrebbe compromettere la salute degli uomini, e la vita dell’ambiente che abitano. È per questo, comprendendo la difficoltà che spesso porta questi ispettori ad avere cali di vista o contatti quantomeno inappropriati, che vogliamo avanzare alcune proposte. Al di là delle schermaglie del dibattimento sull'esito del quale si pronuncerà la corte, ci sono nel frattempo altri interrogativi che ci assillano. Uno dei temi più scottanti riguarda le armi che le amministrazioni centrali e locali possono mettere in campo per rendere più stringenti i controlli nei confronti delle industrie chimiche. Se è vero che i controlli sono spesso difficoltosi perché i privati non rendono disponibili le sostanze matrice grazie alle quali rintracciare nell'ambiente eventuali contaminazioni dovute a dispersione conseguente ai cicli di lavorazione, la disciplina urbanistica che peraltro conosco da tempo come architetto. e come ex consigliere comunale, può venirci incontro. In attesa che siano gli organismi statali o regionali a regolare la materia della produzione chimica, non solo di Pfas verrebbe da dire, sarebbe importante che i comuni vincolino i permessi a costruire solo per guegli edifici che ospitano imprese che mettono a disposizione degli enti pubblici informazioni precise sulle lavorazioni a partire dagli standard delle molecole prodotte o lavorate. Non si tratta certo di una soluzione definitiva, ma di un accorgimento utile a tamponare la sempre più preponderante deregulations concessa dagli enti pubblici alle fabbriche che inquinano e che fanno ricadere sulla collettività i costi dei loro cicli produttivi.
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